L’etica del Personal Shopper – prima parte

 

l'etica del Personal Shopper
Non si tratta di solo shopping…

Potrebbe sembrare strano che parli di etica nell’ambito di una professione che per il nostro Paese è ancora relativamente giovane. Ma si tratta, appunto,  di una professione. E pertanto anche in questo caso ci sono dei conflitti d’interesse. Che di certo non si estrinsecano nella scelta della borsa nera o in quella marrone, ma si manifestano in modi ben più sgradevoli.

Parleremo qui della questione dei guadagni del Personal Shopper.

No: non vi mostrerò il mio 740. E non sto neanche per rivelarvi dati davvero essenziali per le vostre vite, tipo i miei fee e gli accordi che prendo con le strutture  in veste di fornitore. Dati che peraltro sono riservati, né peraltro vedo motivo di farveli conoscere, anche se so che molti hanno una curiosità quasi malata in questo senso, cosa che oltretutto non mi spiego (esistono l’esperienza, la contrattazione e i commercialisti per questo!).

Parleremo qui di un aspetto fondamentale di questa professione, e cioè della tanto discussa questione di come si viene pagati.
Be’, in denaro, ovvio!  Anche se non solo così… ma procediamo con ordine.

La prima cosa che mi chiedono molte boutique quando mi presento e avviso che sto per portare un cliente, o che sto preparando delle selezioni di capi, è “come funziona”. Il che, in un linguaggio gergale che personalmente non apprezzo affatto, si traduce in  “quanto esigi in termini di percentuale”. La mia risposta spesso li lascia perplessi. Infatti, rispondo che io vengo pagata dal cliente. Come libero professionista che offre delle consulenze, questo è per me abbastanza ovvio.

Il loro stupore deriva dal fatto che si sono recentemente immesse sul mercato molte giovani ragazze che si sono improvvisate Personal Shopper, e che, con atteggiamento molto sgradevole, impongono questa specie di pizzo ai negozianti. Il cliente, in questo modo, non paga un fee.

A parte il fatto che si tratta non di una ONLUS ma  di una professione che attiene al mondo del lusso, per cui non si capisce perché il cliente non dovrebbe pagare per un servizio che riceve. A parte il fatto che le percentuali di questi tempi sono basse (ovviamente sono informata sui fatti).

Ma se non ti fai pagare svilisci la tua professionalità. Certo, se di professionalità non ne hai, è un altro paio di maniche. La cosa grave di questo fatto è che questo fatto tende a creare un’immagine negativa della figura del Personal Shopper da parte di chi non lavora in modo corretto. Molto spesso si immagina infatti che il Personal Shopper sia “una ragazzina fashion victim che viaggia a percentuali”. Il punto è che in realtà questa figura sarebbe distante anni luce da ciò.

Che cosa paghi quando paghi un Personal Shopper?
Intanto la consulenza, questo l’abbiamo già detto. Tanto vale ripeterlo. La consulenza consiste nel portarti nel luogo giusto per te e soprattutto nel  consigliarti al meglio attraverso le sue abilità e know how, cosa che non tutti possono fare.
Oltre a ciò, paghi le sue conoscenze. Il database di un personal Shopper è enorme, e costantemente aggiornato. Si tratta di un vero e proprio “lavoro nel lavoro”.
Senza contare che ogni giornata di shopping viene preparata in anticipo. Si fanno telefonate, si concordano molte cose con il referente, insomma nulla ma proprio nulla è lasciato al caso. Il che richiede tempo. E, ovviamente, denaro.

Ricevere un fee dal cliente mi ripaga del mio impegno, ma soprattutto mi rende indipendente nel mio lavoro, e mi permette di impegnarmi nel modo migliore per il soddisfacimento del cliente stesso. Posso permettermi di ricercare e interfacciarmi con negozi di ogni genere, e trovare fra di essi quelli più adatti al cliente del momento. Questo mi permette di lavorare con serietà e precisione, e rende il cliente felice. Perché grazie a me scopre luoghi e prodotti totalmente nuovi.

Vi faccio infine notare che le grandi griffe non riconoscono percentuali, bensì offrono delle strenne. Il che è decisamente più elegante. Ma non permetterebbe di campare del proprio lavoro. E neanche di vestirsi gratis, se è per questo. Anche questa è una credenza piuttosto diffusa, che a mio avviso va sfatata.

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